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Fatti&Misfatti / Ginobili: il gigante lascia la scena

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Mercoledì 29 Agosto 2018

 

ginobili 2

 

Una uscita di scena attesa e temuta, per il campione dei tre mondi che ha dato tanto anche al basket italiano.

 

di Oscar Eleni

I campioni dello sport che più hai amato si vedono al chiaro di luna, quando se ne vanno, guardandoli a metà con l’occhio e a metà con la fantasia. Il quarantunenne Manu Ginobili, leone di luglio, asso del basket, argentino di Bahia Blanca, è uno di questi e il suo addio al gioco, alla professione, dopo 23 anni di professionismo, non ci lasciano tristezza, ma orgoglio per averlo visto nascere e crescere. Ha vinto tutto nei tre mondi che ha frequentato, la sua Argentina con cui è diventato campione olimpico, l’Europa e l’Italia che ha dominato vestendo la maglia della Virtus Bologna, il regno fatato della NBA nei 16 anni di San Antonio dove ha vinto quattro anelli che sono sulla sua corona di fenomeno sul campo e fuori.

Sapevamo di dovergli dire addio, succede a tutti i campioni dello sport, eravamo anche preparati, ma questa decisione ci fa venire in mente tanto della sua storia, iniziata, qui da noi a Reggio Calabria, diventata speciale con Ettore Messina a Bologna, ingigantita dalla vita texana agli ordini di Greg Popovich.

Ricordiamo una trasferta di coppa con la Virtus. Aveva problemi muscolari, sembrava irrequieto ma, come succede quando ti innamori di qualcuno, eravamo convinti che tutto l’universo, come diceva Coelho, fosse d’accordo con noi. Vai Manu, gioca, vedrai che ti passa. Fu davvero così, è quasi sempre stato così. Per diplomazia, nelle ultime stagioni, cercavamo di non ricordare la sua età. Ieri ci ha detto lui che la sua storia sportiva, almeno sul campo, era finita. Peccato, ma è stato bello incontrarlo e raccontarne la storia anche quando toglieva dal collo all’ultima Nazionale italiana decente l’oro olimpico di Atene nel 2004.

Dicono che un migliaio di parole non lasciano un’impressione tanto profonda quanto una sola azione. Con lui era facile, perché questo campione che usava la mano sinistra come il più abile degli spadaccini, con un’azione illuminava la notte di una partita difficile.

Si è guadagnato tutto sul campo dai giorni in cui preparava la scalata nell’Andino Sport Club prima che l’allenatore, il padre Jorge, cresciuto in Argentina in una famiglia italiana di origini marchigiane, gli desse un posto nel Bahia Blanca insieme ai fratelli Sebastian e Leandro.

Aveva 19 anni. Due anni dopo eccolo a Reggio Calabria dove avevano passione e fiuto nel regno che fu dei Versace e del giudice Viola e dove lavorava bene Gaetano Gebbia. A 23 anni lo prese la Virtus che riabbracciava Ettore Messina dopo l’esperienza con la Nazionale. Bel matrimonio. Dalla maglia numero 10 in Calabria alla numero 20 dei San Antonio Spurs quando aveva 25 anni e sapeva di dover scalare la montagna più alta. Era la sua specialità. Arrampicatore ricordandosi sempre da dove veniva, accettando tutto, anche il duro apprendistato con il Popovich che da quel magico sesto uomo ha tirato fuori il diamante, i quattro titoli NBA:” l’uomo e lo sportivo più competitivo che ho visto nella mia carriera”. Era il sesto giocatore di un quintetto magico, per quattro volte la NBA lo ha premiato per questo ruolo che dice tutto di un campione. Sì, certo quel mancino sapeva anche segnare, ne fece 48 contro Phoenix al terzo anno di NBA, prendeva rimbalzi, difendeva, serviva assist, giocava per la squadra, ma era l’uomo il vero gigante.

Ora speriamo che lo tengano nella squadra degli Spurs, un ruolo deve per esserci per questo campione che magari non allenerà come suo padre, ma ha tanto da dire ed insegnare. Lui dice che tornerà anche da noi perché non dimentica gli amici di Reggio e quelli di Bologna. Sarebbe bellissimo.

 

 

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