- reset +

Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

  Direttore: Gianfranco Colasante   

Gianfranco Colasante
BRUNO ZAULI
“Il più colto uomo di sport”




Gianfranco Colasante
MITI E STORIE DEL GIORNALISMO SPORTIVO
La stampa sportiva italiana
dall’ Ottocento al Fascismo
(le oltre 400 testate dimenticate)





I sentieri di Cimbricus / Un capolavoro da (ri)vedere

PDFPrintE-mail

Martedì 28 Agosto 2018

 

momenti di gloria 2

 

Lo sport può produrre valori, virtù, amicizia, razionali ostinazioni, ma è, soprattutto, una parentesi della vita.

 

di Giorgio Cimbrico


Ieri sera ho rivisto per la ventesima volta Chariots of Fire e per l’ennesima volta mi sono venute le lacrime agli occhi. Superano facilmente i confini delle palpebre quando Mussabini sente in lontananza God save the King, assesta un pugno alla paglietta, la sfonda e dice “Figlio mio”. Si può esser padri anche con linee di sangue molto lontane o, come dicono gli inglesi, esser parenti solo per via d’Adamo. Cominciamo dal titolo, Chariots of Fire che non ha nulla a che vedere con Momenti di Gloria. Chariots of ire viene dalla Bibbia, la definizione compare due volte nel libro dei Re e fa parte di un verso di William Blake, poeta e illustratore. Bring me my chariot of fire è finito in quel bell’inno che si ascolta anche nel film, Jerusalem, e che abbiamo ascoltato alla cerimonia d’apertura dei Giochi di Londra 2012.

Gli italiani, di Bibbia e di Blake, sanno poco e niente e hanno anche la dannata inclinazione a stravolgere i titoli originali. Alcuni esempi: il capolavoro di John Ford, The Searchers, Quelli che cercano, è Sentieri selvaggi. Indimenticabile è l’etichetta-spaghetti western che venne appiccicata su un magnifico film – Jeremiah Johnson con Robert Redford: Corvo Rosso non avrai il mio scalpo.

Fine della digressione. Chariots of Fire ha 37 anni e se qualcuno sbuffa o dice che è un po’ noioso, il caldo consiglio è che rifletta sulla propria vita o si rivolga ad altri filoni: i cinepanettoni, i film di Verdone, quelli cuciti sui videogame, i rozzi e inguardabili remake di capolavori come Fahrenheit 451.

Messaggio, oggi incomprensibile: lo sport può produrre valori, virtù, amicizia, può essere l’origine di razionali ostinazioni. Lo sport, soprattutto, è una parentesi della vita: la scena finale, in cui Liddell e Abrahams attraversano il salone vuoto di Victoria Station (silenzio, rumore dei passi) è anche l’addio alla giovinezza. Hanno ottenuto quel che volevano, ora li aspetta qualcos’altro. Oggi sarebbero assediati da offerte, allettamenti, inseguiti, portati alla tentazione. Parigi chiude una fase, ne apre un’altra. L’esistenza, una volta, era chiara, semplice, una linea retta come quella che percorre Harold, ebreo di radice lituana; una specie di orbita elittica che porta allo stesso punto, come quella battuta da Eric, scozzese di fede profonda e di apostolato sincero nato – e morto - in Cina.

All’apparenza, un film storico, calato in un’Inghilterra reduce dal massacro della Grande Guerra (“io leggo l’elenco e piango”, dice il rettore alla cena che inaugura l’anno accademico), di perfetta misura nei “bioi paralleloi” dei due protagonisti, di critica alla dimensione conservatrice che veniva respirata e imposta nell’esclusività dei college. Mussabini è un outcast, lo sa bene, come sa che un’Olimpiade si vince con il lavoro duro, una dimensione che non appartiene alla visione wellingtoniana dei cortili di scuola.

L’altro aspetto che rende unico il capolavoro di Hugh Hudson è formale, non male quando la forma è garanzia di sostanza. Tutto è perfetto, nulla è approssimativo: la fotografia di David Watkin, il montaggio di Terry Rawlings, i costumi di Milena Canonero (secondo Oscar, dopo quello per Barry Lindon di Stanley Kubrick, prima che l’Academy la premiasse ancora per Marie Antoniette di Sofia Coppola e per Grand Budapest Hotel di Wes Anderson), la musica di Vangelis che si alterna a temi tradizionali, religiosi e a uno scampolo di Gilbert and Sullivan.

Raccontano che quando stavano per essere girate le scene delle gare olimpiche a Colombes (lo stadio vero, non computerizzato), Canonero, nata a Torino e laureata a Genova, invitò le comparse (20.000, vere anche quelle) a rovistare in casa per rintracciare una vecchia bombetta, un gilet, un cappellino con la veletta, magari una finanziera del bisnonno. Risultato perfetto.

Inevitabile pensare a ciò che è stato confezionato, nell’ambito di quella che viene chiamata fiction, su Dorando Pietri, Pietro Mennea, Fausto Coppi, Gino Bartali. Viene in mente il verso, ignorato da chi ha prodotto quella roba, di un grande poeta inglese, Wystan Auden: la verità, vi prego, sull’amore. Chi ci ha dato Chariots of fire, ha detto il vero e ha amato quel che fatto. Anche se lord Burghley, marchese di Exeter, dopo esser stato informato sullo stato delle cose, espresse feroci critiche sulla versione offerta del certame di Caius. Uno dei pochi a non aver mai visto il film. Riposi in pace ugualmente.

 

Cerca