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Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

  Direttore: Gianfranco Colasante   

Gianfranco Colasante
BRUNO ZAULI
“Il più colto uomo di sport”




Gianfranco Colasante
MITI E STORIE DEL GIORNALISMO SPORTIVO
La stampa sportiva italiana
dall’ Ottocento al Fascismo
(le oltre 400 testate dimenticate)





I sentieri di Cimbricus / La decadenza prima della caduta

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Mercoledì 22 Agosto 2018

 

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Proviamo a ordinare le tessere della memoria, sperando che non rovinino in ciò che ci si aspetta, un effetto-domino.
 

di Giorgio Cimbrico

Fossi nato nel sobborgo londinese di Putney l’anno del Signore 1737, fossi stato seduto in Parlamento sugli scranni degli whig, avessi guardato con feroce ironia alle credenze religiose, avessi passato molto del mio tempo in biblioteca a rovistare nei corridoi della storia, sarei stato Edward Gibbon e avrei scritto i sei volumi della “Decadenza e caduta dell’Impero Romano”. Sono costretto ad accontentarmi di un compito assai più limitato, assai meno importante, e narrare in maniera succinta della decadenza dello sport italiano e di tutto quel che vi è appollaiato attorno. Per la caduta, meglio concedere ancora un po’ di tempo.

Avevo 9 anni quando vennero organizzate le Olimpiadi di Roma che per me e per molti appartenenti alla mia generazione costituirono una svolta, apersero i canali della conoscenza, diedero sfogo a quel che, in una sua opera, Roberto Calasso chiama ardore. Da allora, Roma ha ceduto nel ’97 al ballottaggio con Atene per il 2004, in formato 2020 è stata bloccata da Mario Monti e, mutata la cifra in 2024, da Virginia Raggi.

Dovevo ancora compiere 5 anni quando Cortina ebbe i Giochi del ’56 di cui non ho memoria diretta ma soltanto libresca. Ero prossimo ai 55 quando toccò a Torino e valli e vissi quei Giochi con l’entusiasmo del neofita: avevo alle spalle molte esperienze ma nessuna invernale. Non mi sarei aspettato di assistere alla veloce scomparsa – liquidazione? – di quegli impianti. In questo senso c’è più memoria architettonica nella località ampezzana che nella vecchia capitale d’Italia e nelle sue zone limitrofe. Sulla rincorsa multipla Torino-Milano-Cortina (attesi agganci di nuovi vagoni?) all’appuntamento del 2026 non credo sia il caso di soffermarsi. Molto è già stato scritto su questo giornale che riunisce gli appartenenti a una sorta di ordine cavalleresco: si tratta di capire se formato da portaspada, da teutonici o da condottieri come Groppone da Figulle, capitan di Tuscia di cui Brancaleone si liberò con un sol colpo d’ascia.

Avevo 23 anni quando una Roma calda e umida ospitò i Campionati Europei che, al tempo, rappresentavano la seconda manifestazione di atletica dopo i Giochi Olimpici. Da allora, 44 anni, nessun bis. Eppure nel 2014 cadevano gli 80 anni della nascita dell’appuntamento, nella culla nuova di zecca dello stadio intitolato a Benito Mussolini, poi Comunale, poi Olimpico, poi Grande Torino. La prospettiva 2022 (nuoto più atletica più qualche altra appendice) non è di mio gradimento. Invecchio, lo so, e non sono solo le arterie e le giunture ad irrigidirsi.

Avevo 36 anni quando Primo Nebiolo portò la sua creatura appena svezzata, i Mondiali, all’Olimpico concedendosi arrivi degni di un dittatore dello stato libero della IAAF o di un Berlusconi ante litteram, non ancora fondatore di partito e conducator per voto popolare.

Rifletto e tento di mettere in ordine le tessere evitando che rovinino in quello che ci si spetta da loro, un effetto-domino.

Ultimo italiano che ho visto diventare campione del mondo, Giuseppe Gibilisco, quindici anni fa, in una specialità non italiana. Un vecchio amico che lavorava al mio fianco, nella tribuna di St Denis, pronunciò una frase che né io né lui abbiamo dimenticato: “Avresti mai pensato di vedere un italiano campione del mondo di salto con l’asta?”. Non esisteva risposta. Meno di un anno dopo, lo stesso Beppe, siracusano come Archimede, non andò lontano dall’oro olimpico.

Ultimo italiano che ho visto diventare campione olimpico, Alex Schwazer, dieci anni fa. Un lungo momento emozionante nell’assolato agorà pechinese, la prospettiva di una solida sicurezza per gli anni a venire prima che avesse il sopravvento il titolo di un best seller di Dan Brown: Angeli e Demoni.

Avevo 6 anni quando l’Italia passò sotto le forche caudine di Belfast e non andò in Svezia. I micro-ricordi che conservo tendono a una subitanea incazzatura al bar dei cacciatori frequentato da mio padre seguita da qualche ironica risata indirizzata ad azzurri troppo irrorati di sangue oriundo. Nulla, a quel tempo, aveva impatti (politici, sociali) come quelli del nostro tempo storto. Vivo in una città dove giustizia venne fatta accogliendo gli sconfitti di Middlesbrough a colpi di pomodoro e fu tutto. Dopo l’impresa di Malaventura e delle sue truppe mal posizionate, sono state aperte le grotte dei venti, in un repertorio di critiche livorose, di attenuanti prima negate e poi concesse, di finti stupori (ma come? Un Mondale senza l’Italia?), di precipitosi dietro-front: chi aveva investito non poteva rassegnarsi ad offrire ai clienti un saldo, un sottoprodotto. La vita non è sogno, è profitto. Lo sto scoprendo con un ritardo vergognoso. Il bello non conta, contano solo gli istinti bassi, le sensazioni a buon mercato, le emozioni gratta e non vinci, intanto chi comanda sa chi ci proverai ancora.

In the heat of he night, cantava Ray Charles, ed era la colonna sonora de “La calda notte dell’Ispettore Tibbs”. Anche ieri e oggi e domani calde notti che è bene passare, più che in un letto umido, a riflettere, a usare quel che resta del cervello e polpastrelli che tendono a far da soli. Parigi o cara, diceva la Traviata; Berlino avara, diciamo noi vecchi suiveur che hanno attraversato vecchi fasti, a Stoccarda ’86, a Spalato ’90, e ora ci ritroviamo la Grecia, la povera Grecia, molto davanti.

 

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