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Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

  Direttore: Gianfranco Colasante   

Gianfranco Colasante
BRUNO ZAULI
“Il più colto uomo di sport”




Gianfranco Colasante
MITI E STORIE DEL GIORNALISMO SPORTIVO
La stampa sportiva italiana
dall’ Ottocento al Fascismo
(le oltre 400 testate dimenticate)





I sentieri di Cimbricus / Un modo piccolo piccolo, un altro mondo

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Mercoledì 18 Luglio 2018

 

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Siamo finiti a capofitto in un mondo che delira per il profitto a tutti i costi (scusate il bisticcio), ma rifiuta la bellezza del gesto.

 

di Giorgio Cimbrico

Se una faccenda nobile come la 4x400 – tutta nera o tutta bianca – diventa un terreno di scontro, di polemica, di astio, pardon, una batracomiomachia, una esopesca battaglia tra rane e topi, non corriamo più la staffetta oppure proviamo a tenerla ben distante dai tentacoli lunghi di queste dispute avvilenti, di queste provocazioni. Non si può, ci sono i social media che trangugiano, divorano, sporcano le mense come facevano le Furie. E allora? Proviamo a vivere senza, io ci riesco benissimo. Per il resto, rimando alla prima foto, a trionfo appena arpionato, e al titolo dell’edizione web de l’Équipe: Pogba e Mbappé abbracciati e “Un Autre Monde”.


 

Sembra uno di quei sottili titoli a doppia lettura del Manifesto. Ricordate Il Pastore Tedesco, quando al soglio di Pietro venne eletto Ratzinger?

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Sono reduce dalla lettura dell’ennesima geremiade – pubblicata dal Guardian – sulla crisi dell’atletica dopo l’addio di Usain Bolt. Di solito chi scrive questa roba con l’atletica ha un rapporto lontano, distratto, superficiale, il contrario di come dovrebbe essere maneggiata. Lo sa bene il nostro direttore che, dopo una sessantina d’anni e più di milizia, non è ancora stufo di scovare risultati e di stenderli su un grande tavolo per avere un quadro complessivo di quel che sta accadendo, per provare a capire, ad interpretare.

Anch’io sono affetto da tale virus e la febbre mi sale a 90° quando vedo Abderhamman Samba andare sotto i 47” e Rai Benjamin sfiorarli, Michael Norman correre in 43”61 (e in 19”84), Noah Lyles centrare un bang-bang 9”89-9”88 in un paio d’ore, Juan Miguel Echevarria descrivere una parabola sino a 8,83 con un niente in più della legalità del vento e, naturalmente, potrei andare ancora avanti e inserire con affetto anche il 9”99 di Pippo Tortu. Anche il nostro Divin Ragazzino fa parte dei giovani iconoclasti che, in questi ultimi due mesi, hanno scavalcato e insidiato nomi (Mennea, Moses, Young) e prestazioni che parevano solidi come la Rocca di Gibilterra.

La lettura “fine di Bolt, fine dell’atletica” è tipica del mondo in cui purtroppo siamo finiti a capofitto, quello che delira e fa delirare per il profitto a tutti i costi (venduta una maglia di CR7 ogni 48”, annunciano sollucherosi corifei), per una microvisione di tutto quello che dovrebbe essere vasto, per una mortificazione della base stessa dello sport, la bellezza del gesto. Quando vedo saltare Armand Duplantis, provo gioia e penso che suo padre deve essere una reincarnazione di Leopold Mozart e il suo piano di allenamento un aggiornamento del “Trattato sul violino” se il figlio, a 18 anni e mezzo, sa offrire un’azione di nitore assoluto.


Ma chi va in piazza per un ormai maturo giocatore di Madeira e chi, in cima alla piramide, nutre sogni da impresario di giganteschi giochi, non possiede quest’occhio, degno ormai di vecchi buddhisti che annotano e provano lietezze interiori, mai isteriche.

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È chiaro comunque che in atletica molto deve esser rivisto. La Diamond League, oggi, è un succedersi di appuntamenti tutti uguali, interpretati da una compagnia di giro che può mutare per un paio di interpreti. E quelle che, di volta in volta, vengono presentate come “sfide stellari”, non possono che assumere superfici sempre più brunite. Ai vecchi tempi, che poi erano una quarantina d’anni fa, anche meno, Zurigo era l’Olimpiade in due ore o il Mondiale quando il Mondiale non esisteva ancora.

Attorno, una costellazione di appuntamenti, in cui ciascuno dei promotori aveva un obiettivo, o un paio. I record mondiali di Coblenza, di Colonia, di Malmoe (cito tre meeting scomparsi) si spiegano così. Adesso il copione è ripetitivo, stucchevole. Fa eccezione Ostrava che inventa sempre qualcosa e infatti non è nel grande circuito.

Spariti i confronti tra nazionali, cancellato il fascino della Coppa Europa (che manco si chiama più così e che ha visto la cancellazione del nome del suo ideatore), l’atletica è ancora capace di mandare lampi imprevedibili in uno stadiolo alla periferia di Madrid, ai campionati NCAA, in una cittadina del Vorarlberg austriaco che ha deciso di farsi Tempio delle prove multiple come Twickenham è diventato Fortezza del rugby e Wimbledon Giardino del tennis.

Lo spazio per la fantasia, per la libertà di scelta può essere il territorio per non sentir più dire “e adesso, senza più Bolt?”. La Terra Promessa è lì, basta accorgersene, ed è sempre più vasta, popolata da indiani, indonesiani, guatelmatechi, ugandesi, siriani, da una razza ibrida che è il futuro. Jonathan Sacoor – il ragazzo dal piede leggero, avrebbe detto di lui Karen Blixen – ne è l’ultima sintesi: indiano di Goa e olandese, bandiera belga. Un altro mondo.

 

 

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