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I sentieri di Cimbricus / Remigino o l'elogio della lentezza

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Sabato 14 Luglio 2018


remigino


Una delle più controverse finali dei 100 metri olimpici, vinta da un ragazzo che campione lo è stato nella vita di tutti i giorni.


di Giorgio Cimbrico

(gfc) Il campione olimpico dei 100 Landy Remigino, piccolo yankee d’origine piemontese, si è spento a 87 anni in casa della figlia. Era malato da tempo e quasi non camminava più. L’avevo incontrato nelle pagine del primo libro di atletica che ho comperato. Avevo poco più di dieci anni e quel manuale della Sperling l’avevo scovato in un angolo della piccola cartolibreria sotto casa, tra quaderni dalla copertina nera e argentei barattolini di coccoina. Titolo, “Atletica Leggera”. Dedicato a Bruno Zauli, l’aveva scritto Gianni Brera che, rievocando quel giorno di Helsinki, “stando in seconda fila sopra il traguardo”, aveva da subito avuto “l’impressione che avesse vinto il bianco”. Una vittoria nella gara simbolo dei Giochi che nessuno si aspettava, dopo che Remigino – in gara per il Manhattan College – era finito quinto nelle 100 yarde della NCAA e secondo ai Trials, approfittando di assenze ed infortuni. Da allora Remigino ha fatto parte a pieno titolo del mio personale album della memoria. Trasmettendomi la convinzione che finché ci sarà un Remigino, varrà ancora la pena di continuare a credere nell’atletica.

La morte di Lindy Remigino è anche un magnifico e commovente elogio della lentezza e non sto parlando del 10”4 che accomunò quattro dei sei finalisti, divisi solo da pochi inches, pollici. Uno, in particolare, tra Lindy e Herb McKenley, mai così vicino, mai così lontano da un oro olimpico individuale. Nell’età placcata oro in cui tutto vola rapido, febbrile, isterico, in cui tutto viene fotografato (anche la margherita appena portata in tavola), colpisce quel che disse il piccolo campione olimpico: “Non ho chiamato a casa: ci davano un dollaro e tre quarti al giorno. Troppo caro per le mie tasche”. A Queens qualcuno avrebbe avvertito Stefano e Rose. Ora, non appena una cosa succede, è già vecchia, salutata da un “ah sì, ho visto sui social”. Allora c’era il tempo di gustarla sino in fondo, come una pesca di Volpedo.

Lindy: l’avevano chiamato così in onore di Charles Lindbergh che, due anni prima che lui venisse al mondo, era diventato l’Aquila Solitaria, dall’America a Parigi senza scalo. Alcott e Brown che l’avevano fatta dieci anni prima, ma su un segmento più corto, da Terranova alla costa occidentale dell’Irlanda, Connemara per la precisione.

Nessuno ha mai pensato di appiccicare addosso a Lindy il soprannome che toccò all’aviatore. Più che un’aquila, un’allodola che sapeva frullare al momento opportuno. Come ai Trials, quando, approfittando dell’assenza di tipi di peso come Jim Golliday, campione NCAA, riuscì a catturare un posto nella squadra per Helsinki. Il comando dell’atletica era affidato a Brutus Hamilton, un tipo che andava per le spicce: “Remigino, ricordati: gli americani vincono sempre i 100”. Falso: il sudafricano Reggie Walker e il britannico Harold Abrahams, l’uno e l’altro allenati da Sam Mussabini, avevano vinto nel 1908 e nel 1924 e nel 1928 era toccato al canadese Percy Williams. Ma cosa deve dire un direttore tecnico che comincia a sentire l’acqua alla gola e deve aggiungere alla lista degli indisponibili anche Arthur Bragg, infortunato in semifinale? Gli rimanevano il piccoletto che partiva forte e Dean Smith che oltre alla velocità praticava il rodeo ed era destinato a una brillante carriera da controfigura.

La finale, 21 luglio 1952, viene cosa su carbonella non asciutta e si trasforma nella corsa della muta dietro la lepre. La lepre è Lindy che prende un metro e sino agli 80 tiene un buon margine. Poi, omettendo metafore e allegorie, sente di calare e se li trova addosso. Si congratula con McKenley, poi un giudice gli dice: “Guarda che hai vinto tu”. I giamaicani protestano e ottengono che la fotografia sia esaminata e riesaminata: dopo 20’, decisione finale. I primi quattro (gli altri due sono il britannico di Trinidad Emmanuel McDonald Bailey e il cowboy) con lo stesso tempo, 10”4, e Lindy campione per un pollice.

La seconda medaglia d’oro arriva sei giorni dopo: in staffetta, con Lindy e con l’uomo che doma cavalli e tori Brahma, ci sono Harrison Dillard che finalmente conquista l’oro nei suoi 110 ostacoli, e il magnifico Andy Stanfield.

Alla Hartford Public High School, dove ha insegnato per un tempo infinito (portando 157 atleti a vincere un titolo dello Stato), Lindy diceva: “Se volete entrare in squadra, battete me. Sino a 42 anni, non mi ha battuto nessuno”.

 

 

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