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I sentieri di Cimbricus / L'uomo che zitti' il Maracana'

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Giovedì 14 Giugno 2018

ghiggia 2 


Mai rimarginate per il Brasile le due sconfitte nei Mondiali di casa: dal dramma del 1950 all'umiliazione del 2014.


di Giorgio Cimbrico

Mineirazo: dopo 64 anni meno una settimana, dopo 40 partite senza una sconfitta dentro quei confini che non finiscono mai, capita di nuovo: quella volta straziante, questa volta umiliante. Senza O Rei e senza O Ney, fuori. Per la sesta coppa, ripassare da oggi, in Russia. Il Brasile è l’unica squadra che ha vinto la coppa Rimet e quella che è venuta dopo (non così bella, non così art deco), in Europa, in Asia, in Nordamerica, in Centroamerica, in Sudamerica, ma era il Cile. In patria ha avuto due chances e le ha buttate, ma la parola “buttate” non rende il senso.


La prima è stata un dramma, una serie di passi nel delirio, una follia, un carnevale alla rovescia, una marcia funebre, un samba diventato requiem, una miniera e un pozzo senza fondo per giornalisti scrittori e scrittori giornalisti, una vicenda narrata da una parte e dall’altra della barricata: Il Maracanazo. Il Mineirazo, solo un’umiliazione, la resa senza combattere, la consegna delle chiavi della città, l’apertura delle porte alle truppe nemiche.

 

Lontana nel tempo, ma quella vecchia storia la conoscono tutti, anche quelli che sono nati tre generazioni dopo e hanno letto o hanno assorbito le narrazioni di nonni e padri. Chi è ancora in vita, sa perfettamente cosa faceva in quel giorno. Come per Kennedy. Poi è capitato di nuovo, l’8 luglio di quattro anni fa, non a Rio de Janeiro, ma sull’altopiano, nella capitale dello stato di Minas Gerais, la città dell’ex presidenta Dilma Rousseff (fatta fuori con impeachment), ma anche di Vinicio detto O’ Lione, di Tostao, di Toninho Cerezo. Nunca Mais, mai più, fu il titolo gigantesco di O Globo dopo quel pomeriggio di un giorno da cani. E invece, di nuovo. 1-7, primo tempo 0-5: Thomas Muller, Klose, Kroos (due), Khedira, Schurrle (due anche lui), Oscar. Una volta lo chiamavano il gol della bandiera, ora lo chiamano il gol della pietà.

“Ci sono tre persone al mondo che hanno zittito il Maracanà: Frank Sinatra, il Papa e io”, raccontava Alcide Ghiggia che più che un giocatore sembrava un croupier. Il silenzio che precedette la Gran Disgrazia, la disperazione, gli infarti fulminanti, i suicidi, venne il 16 luglio 1950, una morte nel pomeriggio: arrivò da un cross di Pepe Schiaffino (nonno Alberto veniva da Camogli) che raggiunse Alcide. Esiste una ripresa filmata, vecchia, brutta, confusa: i fotogrammi scalpitano come cavalli selvaggi. Si riesce a intuire un diagonale, la palla che va in rete, Ghiggia che si volta e alza un braccio, poco altro. Il portiere Barbosa non si coprì di gloria e divenne il bersaglio dei macumberi.

Il secondo chiodo piantato sulla bara del Brasile che si era presentato alla partita decisiva (non era la finale, ma l’ultimo match del gironcino finale, con Spagna e Svezia) con il vantaggio di poter giocar per il pari e prendersi per la prima volta la coppa Rimet dopo la terribile delusione del ’38, quando Peppino Meazza si era messo a fare il carioca a disegnare ghirigori sul prato di Marsiglia. Ma davanti ai 200.000 – tanti se ne potevano stipare al Maracanà – chi voleva far la formica? E così tutti a frinire come cicale, a esibirsi, a offrire il repertorio di futebol bailado.

Al gol di Friaca, esultanza vulcanica. In quel momento l’Uruguay vacillò e a tenerlo in piedi fu Obdulio Varela che aveva un magnifico nome da racconto e così hanno finito di scriverne, sul suo conto. Obdulio prese la palla dalle mani di Maspoli e lentamente si mise a marciare verso il centro del campo. Due minuti, prima che il gioco riprendesse. “In quel momento il Brasile aveva la furia, poteva matarci. Si trattava di far scendere la temperatura”. E così, una decina di minuti dopo, Ghiggia pesca Schiaffino ed è 1-1 e il Maracanà, che pare un enorme organismo, borbotta come un ciclope che ha qualcosa sullo stomaco, ma è un malessere passeggero, deve esser così. E invece, tre minuti dopo, arriva la nemesi sotto le apparenze modeste di questo ometto dai baffetti sottili alla Adolph Menjou. Quel che capitò dopo, è entrato nella leggenda, nella letteratura: le medaglie consegnate in maniera quasi clandestina mentre il dolore brasiliano si allaccia alla furia, la birra che il solitario Obdulio si concede a un tavolino, nella città sconvolta.

“Mi aggredirono e dallo stadio me ne andai con una gamba malconcia”, raccontava Alcide nei lunghi anni in cui, uno dopo l’altro, i protagonisti di una giornata epica si sono avviati verso i Campi Elisi. Hanno provato a vendicarsi negandogli l’ingresso a Brasile-Croazia, la partita inaugurale di quattro anni fa. L’ha guardata in televisione e ha cominciato a radunare quel che rimaneva della sua forza magnetica. Per colpire ancora. E ha colpito.

 

 

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