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I sentieri di Cimbricus / E pensare ch'era un gioco per soli Sahib

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Venerdì 18 Maggio 2018

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Esportato con tutti i suoi riti, in un fenomeno di riflusso storico, il Rugby britannico ritorna cambiato di pelle.  

di Giorgio Cimbrico

Era un gioco per soli Sahib, è diventato il gioco per tutte le razze del mondo: Thomas è del Mali, Itoje nigeriano, Nyanga congolese, Navidi iraniano, Goromaru giapponese, Trinh Duc vietnamita. Non è il caso di fornire un elenco, anche molto parziale, di tongani, samoani, fijiani. Meglio ricordare i baschi, i lituani che hanno giocato per l’Argentina, i norvegesi che hanno avuto i loro momenti in Premiership, gli olandesi bianchi e neri (Visser e Betsen), gli albanesi, i georgiani, gli ucraini.

Il rugby era un mondo di bianchi, possibilmente di buona famiglia. Quando 130 anni fa i primi Natives neozelandesi arrivarono in Inghilterra, via Melbourne e Suez, destarono curiosità. Molti vittoriani si erano imbattuti in uomini di pelle scura soltanto ammirando stampe di facili battaglie o gloriose disfatte combattute oltremare. “Non sono proprio come noi – scrisse un cronista scozzese – ma d’altra parte molti di loro, appena una generazione fa, appartenevano a una tribù di selvaggi”. In realtà nella squadra che sconfisse il Surrey, cui spetta la primogenitura nell’aver affrontato dei kiwi che già abbozzavano una specie di haka, i maori puri erano cinque, i maori per parte di madre o di padre quattordici, i pakeha cinque.

In ogni caso, erano strani, esotici, un anticipo di quanto il paese avrebbe provato nell’estate del 1897 quando per festeggiare il Giubileo di Vittoria, regina da 60 anni e imperatrice d’India, a Londra arrivarono bashi-bazuk dai denti affilati, robusti ashanti, pellirosse che avevano trovato rifugio in Canada (la terra della Nonna, la chiamavano imbattendosi ovunque nei ritratti dell’anziana sovrana), elegantissimi sikh, mercanti arabi di Aden e Zanzibar, sultani malesi, discendenti degli schiavi strappati all’Africa Occidentale e trapiantati nelle isole del Caribe, rudi australiani, britannici che la lunga esposizione al sole dell’Equatore e dei Tropici avevano reso bruni quasi quanto gli indigeni che amministravano con mano ferma e solo apparente bonomia.

Non immaginavano, gli spettatori del magnifico corteo giubilare, che molto di quell’Impero, di quella Gran Bretagna esportata ovunque con tutti i suoi riti, i suoi costumi, i suoi conformismi, avrebbe finito, in un fenomeno di riflusso storico, per popolare quella che, a seconda delle origini e delle appartenenze, era la madre patria o la vecchia padrona. Lo sport, uno degli aspetti della società, ne venne investito ed ebbe i suoi primi epigoni in Emmanuel McDonald Bailey, trinidegno, finalista nei 100 ai Giochi di Londra 1948, in Vivian Anderson che trent’anni dopo sarebbe diventato il primo giocatore di pelle scura a conquistare un posto nella nazionale di calcio, in Rory Underwood, anglo-cinese, pilota della RAF, che disseminò di mete la sua parentesi con la Rosa che lo vide in alcune occasioni affiancato dal fratello Tony.

Metamorfosi naturali, storiche o condotte con una certa abilità, con una buona dose di intraprendenza, di opportunismo: l’Australia che portò a casa la sua prima Coppa del Mondo, nel 1991, era una squadra di scozzesi e irlandesi con il veneto Campese e con il tongano Ofahengue, oggi è oceanica; i legami più o meno stretti, più o meno lontani, hanno offerto splendide opportunità antipodali a Galles, Irlanda, Scozia, Inghilterra; il passaggio dalle tenebre dell’apartheid a una problematica democrazia hanno trasformato il Sudafrica molto boero e un poco inglese in un mosaico di razze numerose quasi quanto le lingue ufficiali del paese dell’Africa Australe.

La Francia non ha fatto che pescare in un’immigrazione così profonda da aver regalato un campione olimpico già nel 1928 (Boughera el Ouafi, vincitore della maratona di Amsterdam) e presente in ogni angolo del paese. L’atletica e il calcio sono stati i primi approdi; il rugby, chiuso a lungo nelle sue roccaforti pirenaiche e del sud ovest, non ha offerto a lungo le stesse aperture. L’assetto statale e l’impatto sociale hanno impresso la svolta: oggi il rugby francese assomiglia alla divisione del generale Leclerc che liberò Parigi. Maghreb, Africa Occidentale, Africa Equatoriale, Polinesia persino lo sperduto arcipelago di Wallis e Futuna fanno parte del mosaico.

A questo punto, non resta che attendere un forte programma di sviluppo della Russia (che, dopo aver dato alla storia del gioco il meraviglioso principe Obolensky, ha mostrato recenti segni di sé, specie nella sperduta e siberiana Krasnojarsk), un interesse dei cinesi che specie a nord, in Manciuria, dispongono di eccellente materiale umano, un ingresso in scena del Brasile che qualche anno aveva un triplista da quasi 18 metri, Jadel Gregorio, 2,00 per 102. Che seconda linea sarebbe stato.

 

 

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