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Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

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I sentieri di Cimbricus / Quattro milioni di passi, l'eredita' di Bruce

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Domenica 6 Maggio 2018

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La religione della corsa a piedi ha perso uno dei suoi apostoli: nulla a che vedere con i milioni di runners della domenica.

di Giorgio Cimbrico

Alla fine di aprile, a 82 anni e mezzo, se ne è andato Bruce Tulloh che i più vecchi tra i lettori ricorderanno campione europeo dei 5000 sulla pista in cenere di Belgrado, davanti al polacco Zimny e al sovietico Bolotnikov. Da buon britannico Tulloh aveva in serbo un repertorio di vita così vasto che quella vittoria (“mi ha ispirato e se sono diventato un mezzofondista, lo devo a lui”, ricorda Brendan Foster che quella corona avrebbe conquistato dodici anni dopo a Roma) o il fatto di esser finito alle spalle di Peter Snell, quando il kiwi ritoccò il mondiale del miglio a Wanganui, finiscono per rappresentare poco più che fuggevoli episodi. L’avventura, il gusto del cambiamento, dell’esperienza prima di tutto. Faccende da dna.

In pista Bruce correva scalzo – l’erba e le spiagge del Devon erano stati i suoi terreni – ma quando decise di andare da una parte all’altra dell’America convenne che era meglio calzare delle scarpe: quattro milioni di passi invitavano a usare clemenza per quei poveri piedi.

Forrest Gump va su e giù per tutti gli Stati sino a sentirsi un po’ stanchino nel 1994 (quella, almeno, è la data di uscita del film di Robert Zemeckis interpretato da Tom Hanks), Bruce, leggero come una piuma (52 kg il peso forma) corre da Los Angeles a New York nel 1971. Il record era di un sudafricano, Don Sheperd: 73 giorni, portando in uno zaino i propri averi.

Tulloh, senza pesi a gravargli sulle spalle (“non volevo esagerare con la sofferenza”, ridacchiava), ce la fa in 65, rispettando la tabella di marcia, la norma che si era prefissa: dovevano essere 45 miglia al giorno e alla fine sono 44,2. Era seguito su un furgone dalla moglie Sue e dal figlio più grande, Clive, che gli aveva trasmesso il morbillo che l’aveva tagliato fuori dai Giochi di Tokyo su cui puntava con una certa ambizione. “Le strade principali mi erano interdette, ma è andata bene lo stesso”, raccontava rivedendo capi di granturco che non finivano mai. Oltre a correre, scriveva: l’Observer (uno degli sponsor dell’impresa, al fianco della British Leyland e della Schweppes) aspettava la sua colonna settimanale. Impegno sempre rispettato.

E così esplorare, correre e scrivere diventano una cosa sola. Dopo aver pubblicato “Four Millions Footsteps”, va a vivere nelle montagne del Messico del nord tra gli indiani Tarahumara, quelli che riescono a correre anche per 300 chilometri di fila, e stende un magnifico reportage per l’Observer; poi si sposta in Kenya e allena Mike Boit detto dentone. Vive e corre a quote alte, quelle che lo avevano spaventato quando aveva respinto le possibilità di misurarsi con l’Olimpiade di Mexico City.  

Nel 1973 decide che è venuto il momento di rimetter radici, insegna biologia al Marlborough College, nello Wiltshire, dà sempre una mano nel preparare le squadre di atletica, continua a scrivere, continua a correre. Di libri ne lascia una ventina e uno, Running is easy, è diventato un classico.

A 58 anni corre la maratona di Londra in 2h47’, a 60 i 21 km in 1h16’ e a 75 convince l’intera famiglia a un viaggio da Grand Tour: ad Atene, per lasciare le sue impronte da Maratona al Panatenaico. Si era sempre coltivato, e non solo perché, seguendo le inclinazioni naturalistiche della madre, aveva studiato botanica e scienze agricole a Cambridge. Così, non ne nascono più.

 

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