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Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

  Direttore: Gianfranco Colasante   

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I sentieri di Cimbricus / Quel popolo ardimentoso che abita gli antipodi

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Marcoledì 28 Marzo 2018

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Un viaggio verso il sud del mondo sulle orme di Snell e degli altri eroi della nostra giovinezza.

di Giorgio Cimbrico

C’è un paese che sta esattamente sotto i nostri piedi, a distanza di un globo: è la Nuova Zelanda. Ha meno di cinque milioni di abitanti, almeno trenta (milioni) di pecore, molti cavalli. Ultimamente hanno iniziato ad allevare anche cervi. Producono lana, carne (primi invii di agnelloni in Inghilterra, più di 150 anni fa), burro, kiwi e altra frutta e vino. Bianco, eccellente; rosso, in ascesa. Sport, il rugby: gli Originals, gli Invincibili, Bobby Deans, Dave Gallaher caduto, lui che lavorava nel mattatoio di Auckland, nel mattatoio di Passchandaele, George Nepia, Colin Meads detto il Pino, Jonah Lomu.

In due righe di una Spoon River ovale, una storia molto All Black: gli scontri feroci con gli Springboks sudafricani, gli interminabili tour, via nave, nelle isole britanniche e in Francia, la haka a petto in fuori e lingua rampante, la felce d’argento, la cronaca che diventava storia e si tramutava in leggenda alla velocità del suono e della luce, giusto il tempo in cui loro, in campo, architettavano un assalto e una meta.

In questi giorni, dopo la botta di Tom Walsh a 22.67, sesto di sempre, a fianco di Kevin Toth (due anni per doping) e dietro Randy Barnes (squalificato a vita, ma curiosamente ancora padrone del record del mondo, centrato appena prima di esser pizzicato), ho provato un’esplorazione in quella dimensione che, per citare Marguerite Yourcenar, potremmo chiamare un’Opera al nero. Anticipando la conclusione, di una sconcertante banalità, posso dire che è difficile trovare un popolo più ardimentoso e sportivo. E con i visi giusti.

“Scommetto che parlerai di Hillary o di Snell”: tutti hanno il loro visitatore segreto, di solito maligno, o comunque poco disposto a compiacere l’interlocutore. Ma io so come porgli un freno, fregarlo. E così, invece di prendere il via con l’uomo che portò in dono l’Everest alla giovane regina che stava per essere incoronata, o con il doppiettista di Tokyo ’64, eroe della nostra adolescenza (nella foto, il podio dei 1500 con John Davies e il ceco Josef Odlozil), potrei partire con Anthony Wilding che allineò quattro vittorie a Wimbledon prima di cadere a Neuve Chapelle nel ’15, ma finisco per scegliere il 2 settembre 1972 e un elenco di nove nomi: Hurt, Veldman, Joyce, Hunter, Wilson, Earl, Coker, Robertson, Dickie. Non avevano un dollaro e ne occorrevano 45.000 per allenarsi, pagare il viaggio, spedire l’equipaggiamento. Riuscirono a raccoglierli, sbarcarono in Germania, in Baviera, e lasciarono a tre secondi americani e tedeschi est.

Nel canottaggio l’otto è come in atletica una distanza nobile, i 1500. Vinti anche quelli, da Jack Lovelock, da Peter Snell, da John Walker. Nobili, peraltro, sono anche gli 800 e i 5000, e, nella loro nera “Casa della Fama” troviamo (due volte) Peter Snell e Murray Halberg, che aveva il braccio sinistro paralizzato (il rugby gli aveva lasciato un segno indelebile), ma se la cavava benissimo. Voglio precisare che in quel mondo lontano e semplice, la sua menomazione era notata ma non troppo sottolineata. ”Però, quel ragazzo…”, ed era tutto. Oggi sarebbe iconico. Perdonatemi l’aggettivo. Non lo userò mai più.

I neozelandesi bianchi (la maggior parte di radice scozzese e irlandese) sbarcarono su una terra aggrovigliata e fangosa che non era deserta: dal mare, più o meno settecento anni prima, erano arrivati i maori, seguendo, dicevano loro, il loro dio-squalo, che non è una bestemmia. All’inizio le cose non sono andate bene, ci sono state un paio di guerre, ma niente da paragonare con il genocidio che ha spazzato i pellerossa. John Kirwan, campione del mondo nell’87 e più tardi CT dell’Italia del rugby, raccontava che era cresciuto in classi miste, nel senso di bianchi e maori, senza discriminazione tipo Alabama o Mississippi. Misto è anche l’inno: prima metà in maori, seconda in inglese. Negli ultimi trent’anni la componente “pacifica” è aumentata con una forte emigrazione da Tonga, Samoa e Fiji. E il rugby se n’è avvantaggiato: gli isolani incrociati nei suoi viaggi da James Cook sembrano fatti apposta.

Nomi che hanno lasciato il segno: Russell Coutts, stella del match race e dell’America’s Cup che tornerà, nel futuro dietro l’angolo, nel golfo di Aurangi; Valerie Adams, figliolona di una tongana e di un marinaio inglese giramondo e gira-donne che ha messo al mondo venti discendenti; la famiglia Barrett che ha dato al rugby parte della numerosa nidiata e soprattutto Beauden, miglior giocatore del pianeta Ovalia. E ora Tom Walsh, il muratore di Timaru che, a furia di abbattere muri oceanici finirà, in fondo a una delle sue fulminee giravolte, finirà per far crollare anche quello mondiale. È di buona pasta: il padre, discreto lanciatore di peso, conquistò con South Canterbury il Ranfurly Shield, il trofeo delle province che era preda ambitissima quando il rugby si giocava per il piacere di azzuffarsi, non per denaro.

Il viaggio agli antipodi può finire qua. Con un’avvertenza: la Nuova Zelanda, che per noi è sempre nera, in maori si chiama Aotearoa, la lunga nuvola bianca.

 

 

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