I sentieri di Cimbricus / Le tante anime della Grande Madre
Martedì 23 Gennaio 2018di Giorgio Cimbrico
Back in Ussr, una vecchia canzone dei Beatles che sta per compiere 50 anni (quante cose, in quel ’68…), può tornare fresca e attuale grazie a chi è nato quando la vecchia Urss era crollata come la Galassia Centrale di Isaac Asimov: Danil Lysenko, classe ’97, secondo ai Mondiali di Londra, 2,38 subito dopo a Eberstadt, 2,36 ai primi assaggi di stagione indoor. Danil è di Birsk, Repubblica dei Bashkiri: capitale, Ufa, dove è nato Rudolf Nureyev. Back in Ussr, ritorno in Urss, dove la vita sarà anche stata difficile, amara, squallida, dove le cose funzionavano poco e male, dove i burocrati avevano la meglio, dove per lunghi anni il sospetto poteva diventare un angelo della morte, un emissario della sparizione, ma dove sapevano insegnare le cose per bene e continuano a farlo.
Basta guardare come salta Danil, un fosburysta con la rincorsa del ventralista, e come salta Mariya Kuchina, che viene da un lontano angolo del Caucaso, il Kabardino Balkaria, più elastica di un ramo di betulla. O ricordare come se la cavavano in aria Sergei Bubka e Yelena Isinbayeva, zar e zarina li hanno chiamati.
Capita così in tante attività proprie dell’umanità: l’altro giorno ascoltavo una vecchia registrazione della sinfonia concertante di Mozart. Violino, Gidon Kremer, lettone; viola, Kim Kashkasian, armena. Al tempo, sovietici. E a questo punto potrei agganciare alla lista, più lunga di quella compilata da Leporello con le belle sedotte e conquistate dal suo padrone (oggi don Giovanni, molestatore scelto, se la passerebbe molto male), i pianisti ucraini, i violinisti della scuola di Odessa, il violoncello di Mtislav Rostropovich, le generazioni, simili a ondate, delle ballerine e dei ballerini dei Bolshoi di Mosca e del Kirov di San Pietroburgo e tutti quelli che hanno scosso le nostre emozioni di collezionisti di risultati, specie quando rinvenirne equivaleva a una scoperta eccitante e gioiosa, legata spesso a nomi che mai prima avevamo sentito nominare.
Forse non tutti ricordano che il primo uomo a sorvolare 2,40 è stato Igor Povarnytsin, ucraino lunghissimo, magro e dotato di un pomo d’Adamo che pareva un rostro: che la prima ad atterrare oltre i 7 metri fu la lituana Vilhelmina Augustinaviciute Bardauskiene (più lungo nome, cognome da nubile e da sposata del suo balzo storico), che la prima a spedire il giavellotto oltre i 70 metri fu la piccola e rotonda kazaka Tatyana Biryulina, che il primo ad abbattere a martellate il muro degli 80 metri fu Boris Zaychuk, anche lui di nascita kazaka. Come potete constatare, ho citato personaggi che, a parte il bronzo olimpico di Povarnytsin, non hanno raccolto granché ma che hanno un loro posto, come tutti coloro che hanno piantato una bandiera, piccola o grande, su una terra ancora sconosciuta.
Baltici, ucraini, russi d’Oriente, caucasici: la varietà delle provenienze è la migliore delle testimonianze su una solidità che ancor oggi, in un paese che ha perso pezzi giganteschi ed è in preda ad un bradisismo sociale e politico senza fine, riesce ancora a esprimere magnifici prodotti. Tutto merito del doping, del doping di stato, è un refrain alla moda dopo che, per lunghi anni, l’orchestrazione era stata offerta da chi individuava e indicava nel Grande Satana un paese grigio, freddo, triste, ermeticamente chiuso. Piroettare su un palcoscenico, pigiare le mani sui tasti, roteare prima di liberarsi del martello erano tra i pochi modi consentiti per non pensare. È possibile, ma quando il ricordo conduce a Vladimir Vassiliev in “Spartacus” e al nitore di Valeri Brumel, la teoria appare per quel che era: propaganda.
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