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Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

  Direttore: Gianfranco Colasante   

Gianfranco Colasante
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Gianfranco Colasante
MITI E STORIE DEL GIORNALISMO SPORTIVO
La stampa sportiva italiana
dall’ Ottocento al Fascismo
(le oltre 400 testate dimenticate)





I sentieri di Cimbricus / Dibattito aperto: zuccata o guanciata?

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Giovedì 14 Dicembre 2017

immobile 2

di Giorgio Cimbrico

Neppure lo schiaffo di Anagni, quello che Sciarra Colonna rifilò a Bonifacio VIII, ha avuto la risonanza della zuccata, zuccatina, non zuccata, guanciata, di Ciro Immobile a Burdisso: come è noto, nel calcio non c’è mai nulla di solidamente certo, di definitivo. L’episodio è stato visto dalle angolazioni più varie (neppure gli spari su Kennedy hanno avuto una copertura così completa), ha scatenato dibattiti accesi, proteste vibrate (le proteste sono sempre vibrate…), analisi con derive psicologiche: il nervosismo di Immobile è stato causato dalla mancata qualificazione al Mondiale, una ferita aperta, difficile a rimarginarsi?

La vecchia e sempre valida spiegazione – a ognuno è o dovrebbe essere concesso il diritto di incazzarsi – non è stata presa in considerazione perché uno dei principi di questo mondo è che tutto sia stolidamente asettico: una sfera fatta di bip se a uno scappa un moccolo (la regola non funziona per la pubblicità del cinepanettone di Natale dove i vaffanculo e le situazioni molto grevi si sprecano), di parole vuote, di sospensione del giudizio, di sdegno se qualcuno passa il segno che quelli che comandano hanno tracciato. È più o meno l’atteggiamento con cui venne accolto il Giudizio Universale di Michelangelo sino alla morale decisione di rivestir con “brache et vestimenta” le nudità dei dannati e degli eletti: i Maestro ci rimase malissimo e affermò “sarebbe stato meglio avessi fatto zolfanelli”. Chi si sottrae a questa linea di condotta, chi parla troppo chiaro, chi si fa avvolgere da una nuvola d’ira, rischia il bando o, come capitò a Eric Cantona, i lavori sociali.

Qualche mese fa è morto Colin Meads e qualcuno ha detto: è stato il più grande All Black del XX secolo. Di sicuro ha fatto parte di una generazione formidabile – Gray e Lochore, Whineray e Nathan, Clarke e Tremaine – che scrissero la loro epica giusto cinquant’anni fa quando passarono implacabili e invincibili sul rugby britannico e francese, per essere votati la miglior squadra mai espressa dalla Lunga Nuvola Bianca. Fu durante quel tour che la storia dell’uomo che tutti chiamavano Pinetree, il Pino, si arricchì dell’espulsione di Edinburgo, il secondo cavaliere nero ad essere spedito fuori in anticipo.

Qualche vecchio testimone oculare sostiene che, fosse esistito il Tmo, il Pino avrebbe evitato la sanzione. Ma nel rugby, almeno nel rugby di un tempo, le chanson de geste facevano presto a nascere, a fiorire, a diventare rigogliose, e così si narava che l’arbitro gli avesse detto: “Ti ho spedito fuori perché gli hai dato un diretto. Un montante era meglio: non avrei visto niente”. Meads era duro, deciso, anche con se stesso: giocò una partita con un braccio rotto, senza un lamento. E provocò la fine anticipata della carriera dell’australiano Ken Catchpole che non si riprese più da un placcaggio che gli costò una gamba spezzata.

Aveva una fattoria a Te Kuiti, King Country, isola nord. Chi è passato di lì racconta che era stato adottato la stessa abitudine in uso a Buckingham Palace: se c’è la bandiera che sventola sul pennone più alto, significa che la Regina è a palazzo. Così anche all’ingresso di quel borgo di campagna: Colin poteva esserci, poteva non esserci, impegnato in qualche discorso del dopo-cena: lo chiamavano spesso e lui andava volentieri, a parlare, stringendo nella mano ancora forte un bicchiere di birra, dei vecchi tempi, quando si giocava senza prendere un dollaro, anzi, portando danni all’economia di casa perché i tour non finivano mai: mesi, una partita dopo l’altra, dall’altra parte del mondo. E se c’era da arrabbiarsi, ci si arrabbiava. Gli hanno fatto un monumento quando era ancora in vita.

PS. Il 12 dicembre, anniversario di piazza Fontana, Mattarella ha detto: avanti con la verità. Avevo 18 anni, ora ne ho 66 e una qualche idea me lo sono fatta. Anche subito dopo quell’orrore.

 

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