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I sentieri di Cimbricus / La lingua dei bardi la parlava anche Merlino

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Domenica 12 Novembre 2017

galles

di Giorgio Cimbrico

Il novembre del rugby, che qualcuno chiama la guerra dei mondi, scorre da giorni. Non è mia intenzione presentare le partite degli azzurri (batture le Fiji, tocca ora ad Argentina e Sudafrica) riusciti a spezzare una spiacevole catena di sconfitte che (anda)va avanti da nove match e da undici mesi. Oggi, in onore di Galles-Nuova Zelanda del prossimo 25 (i Dragoni non battono gli All Blacks dal 1953, anno dell’incoronazione di Elisabetta), i sentieri portano sulle tracce di una lingua, la lingua dei bardi
. La Bbc Wales manda in onda le partite del Galles con il commento in gallese e le annotazioni tecniche, in gallese anche quelle, a cura di Jonathan Davies: non si capisce niente, ma è bellissimo perché la lingua ha il fascino avvinghiato alle radici del tempo profondo.

Come parlava Merlino? In gallese. Come gli rispondeva Artù? In gallese, anche se qualcuno sostiene che il sovrano - che da formidabile manager mise assieme una forte squadra, con i migliori sulla piazza, quelli della Tavola Rotonda - fosse originario della Cornovaglia.

Necessario partire dalle basi, innanzitutto dal nome del paese che non è Wales ma Cymru (pronuncia tra camre e comri) portando diretti alla tentazione possa discendere dai Cimmeri e da Conan il Barbaro. In realtà deriva dai monti Cambrici della regione centrale, quelli dove trovarono ospitalità i britanni originari lì spinti dai sassoni invasori. Un paio di re delle origini, ammantate di leggenda, sono una meraviglia: Cadwalion ap Cadfan, Cadwallar ap Cadwalion. L’idea è che fossero uomini giganteschi che lavoravano di spada e di mazza e che ai banchetti mangiavano carne unta e bisunta tracannando birra dai corni e insidiando le cameriere.

Passiamo all’inno: Land of My Fathers  composto nel 1856 da Evan James e da suo fratello, che ci mise la musica e che genitori con poca fantasia battezzarono James (sì, James James, Giacomo Giacomo…)  è uno dei momenti più commoventi di quando si va in pellegrinaggio a Cardiff e si finisce per spremere con facilità qualche lacrima. Vero titolo: Hen Wlad fy Nhadau e adottato come inno anche dalla Cornovaglia (là il titolo è Bo Goth Agan Tasow) e dalla Bretagna (Bro Gozh Ma Zadou) dove, è noto, non si parla la lingua di Molìere.

Hen Wlad fy Nhadau venne presentato per la prima volta al Llangollen Eisteddfod, festival di musica tradizionale, del 1858, con immediato successo. L’irruzione nel mondo del rugby è del 1905, quando Teddy Morgan coinvolse il pubblico dell’Arms Park, nel giorno indimenticabile della meta negata al povero Bobby Deans e della vittoria di Cymru sulla Nuova Zelanda, che fu costretta a rinviare di quasi vent’anni la conquista dell’aura di invincibilità. “Se quelli danzano l’haka, anche noi dobbiamo fare qualcosa”, pensò il vecchio Teddy. Detto e fatto. La faccenda è passata agli annali: per la prima volta il pubblico di uno stadio cantò un inno. Nessun bisogno di prove: i gallesi sono noti canterini, capaci di esibirsi anche di fronte agli Zulu che avanzavano minacciosi verso la missione – fortificata alla meglio  di Rorke Drift.

I nomi gallesi sono un’apparente giungla di consonanti. Apparente, perché per loro y e w sono vocali e in effetti è giusto così, perché altro non sono che derivazioni della i e della u. A volte, comunque, esagerano. Come si dice in gallese British and Irish Lions, che quest’anno, con la serie pareggiata in Nuova Zelanda, sono tornati sul crinale della gloria? Llewod Prydeinnig a Gwyddelig. Va meglio quando l’Italia va a Cardiff: Cymru-er Eidal.

Quando si entra nell’area della capitale o si arriva alla stazione, vi accorgerete di essere approdati a Caerdydd e se vi sposterete a est, troverete Casnewydd (Newport), a ovest Aberlawe (Swansea, luogo natale del più grande tra i poeti gallesi, Dylan Thomas, quello della “piccola patria” e “della pietrosa contea”) e Pen y Bont ar Ogwr (Bridgend). Una difficoltà può venire da quella doppia elle iniziale che compare spesso, anche in nomi regali come Llywelyn II, ultimo sovrano gallese sconfitto dal terribile e spietato Edoardo I, che non martellò soltanto gli scozzesi: la pronuncia prevede una specie di cl, con la lingua che batte sul palato e poi va a insinuarsi tra i denti.

La leggenda ovale vuole che i meravigliosi gallesi della fine degli anni Sessanta e inizio Settanta, quelli con le basette a cespuglio – o a coda di scoiattolo – e il colletto rialzato, scambiassero idee volanti e schemi di gioco usando la loro lingua come una misteriosa sciarada, irrisolvibile dagli odiatissimi vicini che abitano oltre il Severn, portano una maglia bianca con una Rosa rossa e raccontano sui gallesi le stesse barzellette che noi raccontiamo sui carabinieri e i francesi sui belgi.

I “pavoni bianchi” hanno provato ad anglicizzare, a cancellare questa lingua fiabesca e antichissima ma non ci sono riusciti. E così tra i giovani (e tra i giocatori) non è difficile trovare chi si chiama Iestin e non Justin, Evan e Ieaun e non John, Dafydd e non David, Anhun e non Anthony, Gwilyn e non William. Significativo che a Carnarvon (prego, Caernarfon) dove nel minaccioso castello affacciato sull’acqua viene incoronato il Principe di Galles, l’86 per certo della gente parli gallese. Con il 97 per cento tra i giovani e giovanissimi.

In ogni caso e per concludere, Cymru am Byth, Wales forever, Galles per sempre. In fondo alla lezione, tutto diventa più chiaro.
 

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