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Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

  Direttore: Gianfranco Colasante   

Gianfranco Colasante
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MITI E STORIE DEL GIORNALISMO SPORTIVO
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I sentieri di Cimbricus / La sinfonia degli addii, ... veri o fasulli

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Sabato 26 Agosto 2017

bolt-2017 2

di Giorgio Cimbrico

Protagora diceva – o magari gliel’hanno fatto dire – che l’uomo è la misura di tutte le cose. Oggi è meglio dire che è l’uomo a misurare tutte le cose, a decidere, a rapportarsi con quel flusso ininterrotto che è il tempo e che ci porta a vivere un eterno presente, a calcolare i sedimenti di un passato che si accumula, a non poter stimare con precisione, con sicurezza, quel che potrà concedere quel che chiamiamo futuro: mentre ne parliamo, un altro piccolo rivolo di sabbia è scivolato nella parte bassa della clessidra. Il tema, finalmente, per non girare più attorno all’argomento come un criceto in gabbia: gli addii pronunciati, pronunciati a metà, non pronunciati.

Usain Bolt se ne va quando è ancora in grado di correre sotto i 10”, tutto sommato una merce tornata piuttosto rara. Ha 31 anni, che sono pochi all’apparenza, ma il Lampo sfolgora da quand’era ragazzino (nel 2003 si parlava già di lui) e non ha mai dato l’idea di essere uno di quelli che portano il cilicio per infliggersi i tormenti - con poche estasi - dell’allenamento rituale, maniacale, torturante.

La mia idea è che Bolt, anche se è molto ricco, se la godrà con poco: una serata di musica con gli amici e le amiche, qualche birra. Inevitabilmente, qualche comparsata, magari nel ruolo di ambasciatore che è toccato a tanti. Mai stato uno complicato, cerebrale. La schiena scricchiolante, il lavoro sul campo sempre più razionato, la consapevolezza di aver conquistato tutto e fatto tutto quel che si poteva fare. Dando un’occhiata a come stanno andando le cose – dal Bolt di Berlino, Ramil Gulyiev avrebbe preso nove metri spaccati – i colossali record dell’annata 2009 rimarranno lontani come la costellazione di Betelgeus.

Roger Federer ha cinque anni più di Bolt e non ha pianificato un distacco. E’ immerso in quella che spesso è la perfezione del gesto, l’esattezza del tempo (inteso come anticipo), canoni che possono proporlo come il più mozartiano tra i campioni dello sport. Spostare una manciata di centesimi di secondo – in avanti o all’indietro - quell’impatto, collocarlo mezzo palmo – in avanti o all’indietro – sul campo significa far crollare il senso della sonata per racchetta, immiserirla, renderla simile a quella consueta, banale, violenta, di tutti gli altri.

E’ la stessa analisi che musicologi e ammiratori hanno applicato alla musica di Mozart: spostare una nota, un accento, un’ascendenza, una discendenza, e tutto si appanna: la malinconia si trasforma in sciatta cupezza, la gioia sublime in allegria da strapazzo, l’armonia in ordine inamidato. Sinché potrà esser offerto un repertorio assoluto perché negarlo al mondo? E soprattutto, perché negarlo a se stesso? Specie in un’età in cui una sincera commozione rende il divino sempre più umano.      
Mo Farah, di un’età che lo colloca tra l’uno e l’altro, non può esser messo sul piano di Bolt e di Federer e proprio per questo ha finito per andare a correre in un territorio di mezzo.

In una condizione che ancora gli permette di consumare una millimetrica vendetta sul suo giustiziere londinese, su colui che ha reciso l’ultimo filo d’oro da cucire al Vello, decide di abbandonare i suoi territori, di non voler più udire la campana che per anni ha coinciso con l’inizio di una lotta selvaggia, condotta con quel suo passo smisurato, senza apparenti concitazioni, e, dopo aver raccolto risparmi su un asfalto sempre generoso, provare ad andare ad eguagliare, con un intervallo protratto nel tempo, ciò che a Emil Zatopek riuscì nella settimana tra il 20 e il 27 luglio 1952. Era la Locomotiva, era l’Uomo chiamato Cavallo.  

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