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I sentieri di Cimbricus / Film su Pele', insostenibile assenza di peso

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Venerdì 2 Giugno 2017

pele 2

di Giorgio Cimbrico

Il Pelé vero e normalmente magico è stato quello di “Fuga per la vittoria”, di John Huston. “Come ti chiami?” gli chiede Michel Caine mentre strabuzza gli occhi guardandolo palleggiare. “Fernandez” e il pallone di consunto cuoio continua a non toccare terra. “Dove hai imparato a fare così?” “Nelle strade di Trinidad, con le arance”. Naturale che Pelé-Fernandez diventi la stella della squadra degli alleati che deve affrontare a Colombes un Wunderteam tedesco, a scopi propagandistici: prende un sacco di botte e una raffica di gomitate nelle costole, specie ad opera di un avversario bello e figlio di mignotta, esce con uno sguardo triste, finisce negli spogliatoi, steso su un lettino a fianco di Van Himst, chiede a Colby (Michael Caine) di rientrare quando le cose si mettono male, anzi malissimo con la piena complicità dell’arbitro francese, che dà l’idea di essere stato inviato dal maresciallo Petain in persona.

A quel punto si mette a disegnare meraviglie e segna con quella rovesciata, su cross di Bobby Moore, che, raccontano, ebbe bisogno di un solo ciak. A seguire, rigore (vergognosamente concesso) parato da Sylvester Stallone che salva il 4-4, invasione del pubblico e fuga verso la libertà al coro di Victoire. Il film era - lontanamente - ispirato alla vicenda dei giocatori della Dinamo Kiev che vennero fucilati dopo aver battuto una squadra delle truppe di occupazione.

Inutile sottolineare chi era il regista: per rimanere a una filmografia essenziale, Huston ha lasciato “Il Tesoro della Sierra Madre”, “Moby Dick” (sceneggiato da Ray Bradbury), “La Regina d’Africa”, “Gli Spostati” (ultima apparizione di Marylin Monroe), “L’uomo che volle farsi re” (rimuginato a lungo; la coppia originale Humphrey Bogart-Clark Gable, scomparsa da questo mondo, venne rimpiazzata da Michael Caine e Sean Connery), “Sotto il vulcano”, con un mostruoso Albert Finney . Fuga per la vittoria è lontana un miglio abbondante dai massimi valori  hustoniani, ma in quella terra dove gli orbi sono meglio dei ciechi, è un capolavoro. O, per attenuare i toni, è divertente, molto divertente.  
Trentasei anni dopo, arriva questo “Pelé” che condivide con il film su Owens, oltre a un titolo di quattro lettere (“Race”) l’insostenibile assenza di peso.

Il piccolo Edson ha dentro lo spirito della ginga che sarebbe una specie di fantasia al potere. Se qualcuno gli impedisce di usarla, si intristisce, diventa una foglia secca e a questo stato d’animo contribuisce la presenza di unJosé Altafini malignazzo, dalla scriminatura alla Cristiano Ronaldo. Ma quando capiscono che la ginga deve essere estratta u usata, come una polvere magica, allora il ragazzino si scatena e grazie al nuovo modo di far cinema, con il supporto pieno del computer, propone le stesse evoluzioni, le stesse acrobazie dei manga giapponesi, usando spesso un frutto che ha quasi lo stesso nome dei cartoni made in Nippon, il mango.

Vicente Feola è interpretato da Vincent d’Onofrio, Lawrence-Palla di Lardo in “Full Metal Jacket”: con Kubrick era meglio. C’è anche Colm Meaney, eccellente attore irlandese, che impersona l’allenatore (britannico) della Svezia: memorabile il suo intervento razzista nella conferenza stampa prima della finale che prende il via con una serie di falli truculenti. Ma quando il ragazzino inizia con la ginga i gialloni si perdono nella nebbia, come antichi antenati vichinghi. Trionfo, lacrime al Rasunda e nelle favelas, Maracanazo dimenticato.

Più che un film, un lungo clip, tipo quello pubblicitario di qualche anno fa, con i brasiliani dei tempi di Ronaldo che palleggiavano in aeroporto. Qui lo fanno in albergo per sgranchirsi la mente e nella ragnatela di passaggi rutilanti, di stop di petto e di spalle, di agganci, un pallone urta una zuccheriera su un tavolino. Verso la telecamera volge lo sguardo sorridente Pelé, quello vero.  

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