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I sentieri di Cimbricus / Nuove truppe coloniali per il rugby

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Mercoledì 17 Maggio 2017

rokodoguni

di Giorgio Cimbrico

Una volta di mezzo c’era qualcosa che assomigliava alla fedeltà, a una specie di concessa – e apparente - appartenenza, persino a qualcosa di simile alla riconoscenza. Sentimenti antichi, fuori moda. Prendiamo i Gurkhas: da 200 anni servono nell’esercito britannico e continuano a farlo. Un reggimento è di stanza ad Aldershot, quartier generale dell’Armata a sud di Londra; un altro a Edimburgo, e così hanno avuto i colori di un loro tartan. Può capitare di incrociare gli eleganti omini a Twickenham o a Murrayfield, armati di strumenti a fiato e non del loro micidiale coltellaccio, il kukri.

I Gurkhas fanno parte di quell’armamentario imperiale che gli anni non hanno cancellato: hanno collezionato Victoria Cross e George Cross, specie quando i giapponesi, all’assalto della Birmania, sono andati a bussare alle porte dell’India. Ne hanno collezionato anche i samoani e i fijiani che, arruolati nel Sas, le forze speciali, hanno combattuto in angoli dimenticati e in scontri feroci: la lunga guerriglia nelle montagne dello Yemen non ha mai meritato le prime pagine.

Oggi Semesa Rokodoguni (nella foto) - bisnonno, nonno e padre militari per il Re e per la Regina, esploratore dei Royal Scots Dragoons, un periodo di servizio in Afghanistan, quattro mete alla Raf e tre mete alla Navy, la flotta, quando ha indossato la maglia dell’Army, ala del Bath, e ogni tanto dell’Inghilterra, può essere considerato, a seconda delle angolazioni, un’anticaglia del passato o il simbolo di qualcosa che difficilmente verrà spazzato: una storia profonda, globale anche quando la globalizzazione non esisteva.

I montanari, gli isolani, gli africani, gli indiani (dal freddo delle catene himalayane all’infuocato Deccan) si arruolavano perché tutto sommato era un modo per campare e, nel caso dei Gurkhas, il premio di congedo permetteva – e permette - loro di tornare a casa e compare gli yak necessari per convincere il futuro suocero a cedere la figlia.

Scegliere un libro e scorrerne le pagine significa imbattersi in magnifiche prove di fedeltà e abnegazione. Il miglior modo per calarsi dentro questa dimensione è leggere “Una guerra per soli Sahib”. Ne ha scritti di bei racconti, Kipling, ma questo è uno dei più belli, e chi alla fine non è commosso, o non ha capito niente o ha il cuore duro come un masso. Oggi la prima e la seconda opzione distano poche yards l’una dall’altra.

E’ evidente che in tutte queste storie, ammantate della polvere sottile del fascino, sempre ebbero la loro parte i reclutatori che battevano le sterminate lande dell’Impero alla ricerca di popolazioni adatte alla guerra: i piccoli Gurkhas, gli imponenti Sikh, i nerissimi e statuari sudanesi dell’alto corso del Nilo, alcune tribù dell’Africa Orientale e Centrale che formarono il corpus degli East African Rifles e dei King Rifles finirono spesso al fianco di commilitoni di pelle chiara, a loro volta assoldati con il miraggio di uno scellino al giorno, e convinti a mollare il gregge che si arrampicava faticosamente sulle balze delle Highlands, a lasciarsi alle spalle le prime fumiganti realtà industriali delle Midlands, ad abbandonare la miseria dello East End londinese o a salpare dall’Irlanda, diventata una terra desolata dopo la Grande Carestia che aveva costretto i cristiani a brucar l’erba.

Un salto di un secolo e mezzo si trasforma in un caleidoscopio: le guerre dell’Oppio, il saccheggio del Palazzo d’Estate, il Grande Ammutinamento Indiano, il raid contro il regno degli Ashanti, la spedizione punitiva in Etiopia, l’umiliazione di Isandlwana, il martirio di Gordon, il Giubileo del 1897, la vendetta di Kitchener sono le pietruzze colorate che ruotano e si combinano. L’effetto può essere abbagliante, stordire, provocare facili entusiasmi o rigurgiti di sdegno, ma diventa anche la superficie tersa di uno specchio su cui leggere la realtà del nostro tempo. Per parafrasare von Clausewitz, di quella continuazione della guerra con altri mezzi che è il rugby.

I reclutatori non hanno più l’aspetto del vecchio sergente, dell’imberbe tamburino e dell’alfiere che vanno di villaggio in villaggio provando a svegliare l’animus pugnandi di giovanotti senza lavoro o desiderosi di evitare un matrimonio riparatore, con la promessa di una vita avventurosa, per il Re e per la Patria. Oggi hanno altri mezzi, altri progetti, altre opportunità, altre promesse, per tessere la loro tela e lanciarla dove la pesca è sempre fruttuosa e abbondante.

Perché è questo indefinibile e potente cocktail di tempo stratificato, ambiente, storia, abitudini, alimentazione che ha costruito, così come li conosciamo, gli uomini del Pacifico del Sud. Oggi in Europa costituiscono un battaglione di 600 unità e in Nuova Zelanda e in Australia devono essere arrivati alla forza di un reggimento.

La domanda è: sarà una riforma di facciata a frenare l’esodo? O in questi mesi assisteremo a una violenta accelerazione per assicurare adeguate riserve alle nuove truppe coloniali?  

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