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Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

  Direttore: Gianfranco Colasante   

Gianfranco Colasante
BRUNO ZAULI
“Il più colto uomo di sport”




Gianfranco Colasante
MITI E STORIE DEL GIORNALISMO SPORTIVO
La stampa sportiva italiana
dall’ Ottocento al Fascismo
(le oltre 400 testate dimenticate)





I sentieri di Cimbricus / I consigli del professor von Finkelstein

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Sabato 22 Dicembre 2018

 

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Con questo raccontino di Natale, un incarto di pregio per i suoi lettori ed amici, SportOlimpico.it conclude il 2018. Ritornerà all'apparire del nuovo anno, per vivere assieme a voi la sua tredicesima stagione, ancora e sempre all'insegna della libertà di pensiero condita da una certa dose di ironia. Solo allora, all'alba del 2019, scopriremo se al centro dell'universo-sport italiano ci sarà ancora il CONI o ciò che ne resta. Se così non fosse, ce ne faremo una ragione, ma subito dopo non potremo fare a meno di chiederci se la colpa (o il merito?) sarà da cercare tra gli inquilini occasionali di Palazzo Chigi o tra i testardi Signori del Foro Italico.

 


Giorgio Cimbrico

Cade una pioggia sottile quando l’Ice color argento da Monaco di Baviera raggiunge in perfetto orario il marciapiede 4 della stazione di Heidelberg. Il viaggiatore si affretta verso l’uscita e trova ad attenderlo un uomo sulla sessantina che impugna un piccolo cartello con il nome del visitatore. “Benvenuto, sono l’autista e il segretario del professore. Se vuole seguirmi …”. La vecchia Mercedes, nera e lustra, è parcheggiata a un centinaio di metri. Il viaggio verso la città vecchia, sulle colline che dominano il Neckat, è breve e silenzioso. Dieci minuti perché il viaggiatore segnali il suo arrivo in albergo e lasci il suo bagaglio prima di inoltrarsi tra gli edifici universitari: foglie morte, ontani spogli, silenzio. La casa del professore è di pietra appena sbozzata, severa. Le tende aperte di un bovindo lasciano intravvedere uno studio.

“Si accomodi, il professore l’attende”. Il viaggiatore avverte una trafittura di imbarazzo, un breve attacco di timidezza. La porta dello studio viene aperta dall’autista-segretario. Manfred von Finkelstein zu Kleist, professore di comportamento umano, etnologia, fisiologia comparata attende al di là della scrivania e all’ingresso dell’ospite distende lentamente, con circospezione, la sua statura e allunga una mano ossuta, dalle vene in rilievo. Novant’anni portati con responsabilità, senza ostentato vigore: il viso è pallido, la pelle è un velo.

“Si accomodi, caro amico. Devo dirle che la sua lettera mi ha incuriosito. Credo di non aver alcun titolo per prestarle un aiuto nella sua ricerca. Né lo sport né tantomeno il rugby che le sta così a cuore, fanno parte del mio bagaglio di interessi, di conoscenza, a meno lei non voglia rintracciare antiche, ancestrali radici intrecciate con la storia, spesso con il mito. In questo caso, potrei anche esserle utile. Ricordo, ad esempio, che non meno di quarant’anni fa tenni il mio corso annuale sulle virtù guerriere delle popolazioni delle isole del sud Pacifico, con esiti piuttosto interessanti”.

“Professore, lei è già entrato in argomento. Il motivo della mia visita è legato ad argomenti che in realtà lei ha esplorato nelle sue esperienze accademiche, nei suoi studi sui popoli e le loro attitudini, scandite dalla necessità, dalle vicende storiche, dalle inclinazioni morali, dal puro dato fisiologico. Non voglio dilungarmi né rubare il suo tempo. Alla luce di quel che sta accadendo, delle prolungate sconfitte, delle demolizioni, della fiducia che va scemando, le domande che voglio porle sono: l’italiano è compatibile con sport che si è andato sempre più trasformando in confronto impervio, in combattimento? E ancora: quali misure possono essere prese per porre fine a una situazione che sta diventando seria, forse senza via d’uscita?”

“Come le dicevo, non sono un esperto di sport come oggi viene inteso, di spettacolo legato strettamente al profitto, ma i miei studi sul comportamento umano, sulla transizione da rito ad attività fisica, su una sacralità che si trasforma in disciplina fisica, sull’etica che da esse ne consegue, hanno fatto sì che possa inoltrarmi nell’argomento proponendo modelli offerti dalla storia delle etnie o di determinati periodi storici”.

“La mia visita si sta rivelando utile: non ne dubitavo”.

“Sono abbastanza vecchio per ricordare quando il rugby era praticato in Germania, e con un certo successo. Questo capitava prima della guerra, che spazzò via questo nucleo: i giocatori venivano da zone con una forte tradizione militare, il Brandeburgo, il Meklenburgo, le marche orientali, le zone di reclutamento dell’esercito di Fredrich der Grosse, sì, quello che voi chiamate Federico il Grande. Popolazioni abituate all’abnegazione, al sacrificio. Tenga presente che, prima ancora di essere arruolati, questi uomini facevano parte di quella che sarebbe stata poi chiamata Landwehr, la milizia territoriale. All’addestramento spesso sacrificavano il tempo libero dai lavori nei campi”.

“È un modello che venne riproposto nella seconda metà dell’Ottocento, in Sudafrica: i burger, i cittadini, erano anche potenziali soldati, pronti alla mobilitazione, padroni delle loro armi, delle loro cavalcature, dotati di una fede religiosa che forniva loro anche una morale che possiamo definire solida, ma anche rigida”.

“Vedo che lei ha buone nozioni storiche. Bene. Così sarà più facile continuare nella nostra analisi e, chissà, trovare soluzioni. Perdoni il mio scarso senso dell’ospitalità: non sarebbe il caso che chiamassi Sebastian per un tè? O qualcosa di più tonificante, un’acquavite, forse? L’età è tarda e proprio per questo non è il caso di privarsi dei minuti piaceri”.

Al premere di un bottone incorporato nella scrivania, Sebastian risponde con un ingresso accompagnato da un discreto batter di tacchi. Di lì a poco fa ritorno con un vassoio: una bottiglia di Grand Marc de Champagne e due bicchieri da degustazione. Il professor von Finkelstein assaggia e approva.

“La buona acquavite ha il potere di far riflettere, di contribuire a far riaffiorare ricordi, a favorire riflessioni. Le ho detto che non sono uomo di sport. Non è del tutto vero. Nella mia gioventù, che non è stata spezzata dalla guerra… Perdoni la digressione: avevo 17 anni quando terminò e riuscii ad evitare di essere arruolato nei reparti combattenti della Hitlerjugend che si portarono via, per sempre, molti miei coetanei. Le stavo dicendo che ho praticato, modestamente, per carità, la scherma. È sempre stato più forte di me approfondire tutto quello in cui mi immergevo, non fermarmi mai alla superficie. E così ho scoperto una dimensione in cui gli italiani dettavano, e a quanto mi risulta, dettano legge, incontrastati. Dunque, cos’è la scherma se non la riproposizione del duello, della trama sanguinosa, del maestro d’armi che può essere sgherro di fiducia del signore, dell’astuzia ben dissimulata?”

“In altre parole, un clima da maschere e pugnali che riporta alle macchinazioni di corte, alle congiure? A un machiavellismo che non è mai andato perduto?”

“Andando alle radici, sì. Senza dimenticare anche un altro vostro disilluso pensatore, Guicciardini. Spero non si risenta. La storia del mio paese ha avuto parentesi terribili, infernali. La storia del suo ha contorni, come posso dire?, incerti, sfuggenti. Passaggi da un campo all’altro, alleanze infrante. Lei sa di cosa parlo. Ma ci stiamo allontanando dal motivo della sua visita”.

“Solo all’apparenza. Gli inventori del gioco, i britannici, hanno sempre sostenuto che il rugby è una rappresentazione bellica proposta su un prato e che, in definitiva, è una metafora della lotta per la vita”.

“Con queste sue affermazioni lei mi sta spingendo a formulare dei giudizi e delle soluzioni. I giudizi possono derivare da tutto quello che abbiamo appena detto, possono essere severi e implicare l’ingresso in un territorio che non mi è gradito: le classificazioni a larghi palmi, i luoghi comuni sull’anima dei popoli. Esiste o è frutto di una certa sbrigativa e superficiale analisi? Quanto alle soluzioni…”

“Forse sarebbe il caso di calarci su un terreno più pratico”.

“Giusto, ma credo che lei sia più esperto di me. L’esperienza mi suggerisce un esperimento tratto dalla botanica: innestare linfa nuova su una pianta inerte. Ad esempio, l’Argentina può fornirvi materiale interessante, penso”.

“Già fatto, ma ora non è più possibile”.

“Perché?”

“Sarebbe troppo spiegarglielo, professore”.

“Un altro serbatoio di robusta italianità è l’Australia”.

“Qualcosa è stato tentato, ma senza andare a fondo”.

“E allora rivolgetevi al mondo che è approdato qui, in cerca di opportunità, in molti casi di sopravvivenza. Sanno affrontare la vita con un coraggio che a noi è sempre più estraneo. E ora voglio farle un paio di regali che potrebbero esserle utili. Il primo è una copia del mio vecchio corso sulle popolazioni guerriere degli arcipelaghi dell’Oceania di cui le accennavo prima; l’altro è il numero di telefono e la e-mail del mio illustre collega Amir Chokasian, studioso delle tribù di montagna del Caucaso, vicino alla pensione ma ancora cattedratico a Tubinga. Può contattarlo e fargli visita anche domani. Posso versarle ancora un goccio di Grand Marc de Champagne? Non la invito a cena perché un vecchio come me ormai tocca appena il cibo. Mi faccia sapere se ci sono progressi, possibilmente in fretta. Nella mia clessidra rimane poca sabbia”.

“E così è stato il professor von Finkelstein a farle il mio nome? È sempre stato molto gentile con me. Un luminare, lei lo avrà capito, e io non posso che definirmi un suo allievo, un modesto seguace. Ho questa cattedra da molti anni ma devo dirle che i miei corsi non sono molto frequentati: credo che il Rettorato attenda soltanto che arrivi ai 70 anni per congedarmi, e sarà presto. Con tutti gli onori, è naturale: i tedeschi, lo sa, sono molto formali”.

Amir Chokasian non riesce a star fermo. La prima scusa è che, in assenza del domestico che chissà se esiste davvero, l’acqua per il tè deve essere tenuta sotto controllo. E così si siede solo per un attimo, sulla punta della sedia, per alzarsi, controllare l’ebollizione. “Le avrei offerto del vino delle mie parti, ma l’ora mi sembra più adatta a un tè, è d’accordo?”.

Saltabecca tra la scrivania e una delle librerie che occupano tre lati dello studio, sbircia titoli, mette le mani su vecchi fascicoli, ne deposita alcuni sul tavolo. La finestra dà su una delle strade acciottolate della vecchia Tubinga. Sono quasi le cinque, il buio sta arrivando e da fuori arriva silenzio.

“Von Finkelstein mi ha parlato delle sue ricerche e credo … Aspetti, ci siamo, l’acqua è al punto giusto. Non assaggerà il vino, ma assaggerà il tè delle mie parti. Armeno, raccolto in alto, vicino a Yerevan. Più aspro di quello a cui lei è abituato. A me viene da dire, puntuto. Sto diventando un vecchio bizzarro e mi accorgo che non sono mai riuscito a troncare il legame con l’Armenia. Si sente anche dalla cadenza del mio tedesco, vero?”.

“Non direi”.

“Oh, lei è molto freundlich, gentile, certo. Ma so che anche dopo quarant’anni l’accento è quel che è. Per non parlare dell’aspetto, vero?”

Con radi capelli argentei, il professor Chokasian offre, ormai solo nell’incarnato, le brune caratteristiche della sua provenienza, accentuate da spessi baffi appena ingrigiti e spruzzati dal rossastro del fumatore di sigaro. Quel che rimane di uno, abbandonato all’arrivo del visitatore, è appoggiato su un portacenere di terracotta. Armeno anche quello.

“Credo di aver capito per sommi capi gli scopi della sua ricerca: le dico subito che non ho mai avuto la tentazione di seguire uno sport, tantomeno quello che le sta così a cuore. Troppo preso dagli studi, dalle ricerche, dalle indagini sul campo. Sono un accademico ma a mio modo anche un esploratore: non ho buttato un’estate, sempre in movimento, sulle mie montagne e su quelle dell’intera regione. Misurazione delle caratteristiche fisiche, delle condizioni sociali, analisi dei ceppi delle lingue parlate, delle scelte religiose. Ho cercato tante radici che oggi ne sono diventato gefangene, prigioniero, già”.

“Sono certo che lei mi sarà utile, professore”.

“È il mio desiderio. E così, e non mi prenda per un vecchio stravagante o per un divulgatore di quelli che vanno così di moda, comincerò con una storia che probabilmente le è familiare. Ricorda Jules Verne, ricorda Michele Strogoff? Sa chi erano i terribili nemici che fanno passare una scimitarra incandescente davanti agli occhi del corriere dello zar? Ceceni. Quelli che combattono da 250 anni contro i russi, poi sovietici, ora di nuovo russi. E non siamo che all’inizio: da una vita scrivo delle tribù di montagna, delle popolazioni che hanno passato secoli a far guerra, a farsi guerra. Divise, riunite, ancora divise, sottoposte a momenti che hanno messo in forse il loro futuro e le loro culture”.

“I caucasici …”

“Diciamo meglio le popolazioni caucasiche. Caucasico o per meglio dire caucasoide è anche lei che non è nato da quelle parti, ma che rientra nelle caratteristiche europoidi, poi allargatesi, dopo le migrazioni, nelle Americhe e in Oceania”.

“La sto seguendo: qualcosa avevo digerito prima di intraprendere questo viaggio”.

“Digerito? Simpatico modo di esprimersi. Ci provo anch’io, riprendo le redini e provo a farle capire perché siamo quel che siamo: sempre pronti a batterci, malgrado un’interminabile storia di sconfitte, di spoliazioni, di cadute, di orrori, anche. Pensi che il primo a metterci al tappeto – ma guarda che modo di esprimermi … – fu un suo compaesano, Pompeo, che distrusse il regno di Tigrane. Ci siamo risollevati, abbiamo lottato contro i bizantini, i turchi, i curdi, siamo stati amici dei regni dei Crociati per via della stessa religione e cent’anni fa, dopo gli spaventosi massacri, abbiamo formato anche una legione bolscevica”.

“Non siete tipi facili alla resa”.

“Non solo noi armeni. Cristiani, ebrei, musulmani, un cocktail di religioni, un mosaico di lingue, di costumi e una quantità di modelli e di attitudini fisiche. Se l’Azerbajan è stato per anni il regno dei più longevi, la zona settentrionale dell’Iran, quella che si affaccia sul Mar Caspio, è l’areale degli uomini più grossi, più potenti. Gliel’ho detto, non ho mai seguito lo sport ma non ho potuto fare a meno di notare i titoli mondiali conquistati da iraniani, georgiani, armeni nel sollevamento pesi, nella lotta”.

“La storia come un ganglio, come un nodo di Gordio ...”

“Due immagini efficaci che ne risvegliano altre: i kabardini allevatori di cavalli, i montanari ingusceti, i viticoltori della Georgia, gli indomabili ceceni, i martirizzati armeni. Potrei andare avanti a lungo. D’altra parte, von Finkelstein gliel’ha detto, ho dedicato la mia vita ad un tentativo di ricostruzione delle culture e delle caratteristiche di una delle aree più complesse della terra”.

“È arrivato a qualche conclusione?”

“Se Noè ha deciso di approdare con l’Arca da quelle parti, aveva capito che si trattava di una zona interessante. È una battuta, ma non solo. La nostra è una storia tragica, di divisioni, di contrasti, ma anche ricca di un orgoglio profondo che non abbiamo mai smarrito. Dica la verità: è così anche da lei?”.       

“Forse, una volta…”.

“A palmi conosco la vostra storia. Quello che Bergson chiamava l’elan vital, quella che Julian Huxley aveva etichettato energia vitae sta scemando”.

“Sono d’accordo”.

“Come al solito quando si parla di cose interessanti, il tempo vola. È un elemento molto fluido il tempo, vero? Invecchiando se ne ha una più precisa sensazione. Ne è passato a sufficienza perché vada a recuperare una bottiglia di rosso della mia terra. Le piacerà, le servirà a capire sino in fondo chi siamo. Duri, vellutati, caucasici”.

 

 

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