Duribanchi / "Non esageriamo, sono solo un reporter"
Martedì 12 Agosto 2025

“Con la sua Leica, sempre in bianco e nero, Gianni Barengo Gardin ha scattato due milioni di ‘pensieri’. Pensieri civili con al centro le città e le persone. Un reporter ma anche un sociologo, un antropologo, soprattutto un poeta.”
Andrea Bosco
Vincenzo Trione, firma del Corriere della Sera, lo ha accostato alla metafisica di Morandi. Pare che Gianni Berengo Gardin che ci ha lasciati a 94 anni – nato a Santa Margherita Ligure ma veneziano nelle radici –, si riconoscesse nello “sguardo austero” di Giorgio Morandi. Non ho la competenza per approfondire il tema. So che la prima volto che lo incontrai nella sua casa milanese, entrando dissi: “Buongiorno maestro”. Al che lui replicò: “Non esageriamo: solo un reporter”.
Con la sua Leica, in bianco e nero, come prediligeva (“il colore non mi piace”) scattò due milioni di “pensieri”. Pensieri civili con al centro le città e le persone. Un reporter ma anche un sociologo, un antropologo, un poeta. “Artista? Non sono così presuntuoso per definirmi tale”.
In quel primo incontro organizzato per parlare di una sua mostra a Milano in una Galleria dalle parti di Corso San Gottardo, discutemmo di tante cose. Una intervista che affidai alla Tgr e poi, in una versione più corposa, a Mizar, rubrica del Tg2. Scattò una immediata simpatia. Perché io sono un veneziano orgoglioso di esserlo e lui era un veneziano più serenissimo dei veneziani, con un amore sviscerato per una città trascurata e diventata fragile.
Gianni Berengo Gardin faceva con la macchina fotografica un lavoro che la televisione non riesce a fare. Specie la televisione cronistica dei telegiornali: rapidi, costretti dal minutaggio e quindi inevitabilmente privi di profondità. A volte per colpa del cronista. Non a caso le televisioni (a differenza dei quotidiani) hanno dedicato uno spazio relativo alla scomparsa di Gianni Berengo Gardin. Alcune addirittura una “breve”. Gianni Berengo Gardin chi? Devono aver detto in qualche redazione.
Le prime fotografie ancora da semidilettante, Gianni le affidò nel 1954 al Mondo diretto da Mario Pannunzio con il quale collaborò fino al 1965. Nel 1963 era stato premiato dal “World Presse Photo”. Le collaborazioni con il Toring Club Italiano e l'Istituto Geografico De Agostini lo consolidarono come fotografo eccellente. Per certi versi memorabili i suoi “sodalizi” con Cesare Zavattini e Renzo Piano. E visto che reputava che l'impegno di un reporter dovesse essere “civile prima che artistico” negli anni Settanta con Carla Cerati si dedicò all'impegno sociale realizzando, nel 1969, “Morire di classe”, un reportage sui manicomi (di Gorizia, Colorno, Firenze) che fece conoscere la battaglia di Franco Battaglia per arrivare alla loro chiusura. Un pugno nello stomaco che scosse la coscienza del Paese.
Andò in Russia, in Francia e in altre nazioni: sempre alla ricerca degli uomini. Aveva, tramite uno zio, contattato giovanissimo Robert Capa, l'autore del (contestato) “Miliziano morente” durante la guerra di Spagna. Capa gli consigliò la lettura di Life. Ammirava Henri Cartier Bresson. “La sua stima per me è una medaglia d'oro”. Ma Gianni amava soprattutto Venezia: le prime splendide istantanee degli anni Sessanta. “La mia Leica me la porto sempre dietro”. Era vero: lo vedevi a una mostra o a un vernissage sempre con la sua piccola macchina fotografica al collo.
Ma quando a Venezia arrivarono i “mostri” da 120.000 tonnellate, alti quanto il Campanile di San Marco, la denuncia di Gianni Berengo Gardin fu puntuale. Se oggi qualche cosa è cambiato, se ai mostri galleggianti è stato vietato di transitare per il Bacino di San Marco, lo si deve anche al lavoro di Gianni. La mostra sulle “navi-alveare” in laguna arrivò anche a Milano. Io ne scrissi sul Corriere della Sera con una proposta (non accolta) al sindaco Sala. Chiedevo un video in Galleria che informasse più che i milanesi, i turisti in transito per Milano. Gianni mi scrisse un messaggio: “Grazie per aver capito”.
Dopo quella prima volta a casa sua, ci sono state altre occasioni. Quasi sempre rapide e fugaci, per lavoro. Ma di quella prima volta ho un ricordo per me prezioso. Mi era piaciuta una sua fotografia che ritraeva giovani preti davanti alla Chiesa della Salute. Era come se i pretini (romani) di Federico Caffè avessero preso contezza del loro essere. Con molta faccia tosta gli chiesi di poterla comprare quella fotografia. Lui si alzò indicandomi che sarebbe a breve tornato. E infatti tornò con una copia della foto che desideravo. Mi disse: “Te la regalo, ma devi promettermi che non la cederai mai”. Un dono inaspettato da un uomo che conoscevo da poco più di un'ora. Così è stato. La fotografia è nella mia raccolta di cimeli accumulati in una vita di lavoro non infrequentemente a contatto con grandi personaggi. Come Gianni Berengo Gardin. Un uomo perbene, innamorato del suo lavoro che Sebastiano Salgado definiva: “Il fotografo dell'uomo“.
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